Il Ferrarese quattromila anni fa

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ABSTRACT – Per parlarvi delle genti che vivevano nel Ferrarese circa quattromila anni fa, ovvero duemila anni prima della nascita di Gesù Cristo, debbo necessariamente parlarvi dell’Età del Ferro, ovvero della terza parte dell’Età dei Metalli che, pur abbracciando un periodo diverso da zona a zona nel nostro pianeta, in linea di massima comprende quel periodo storico che va dalla fine del secondo a tutto il primo millennio prima di Cristo.

ARGOMENTI PRINCIPALI DELL’ARTICOLO

01- Prima apparizione del ferro

02- La scoperta del carbonio

03- Le culture dell’Età del Ferro

04- La conquista della scrittura

05- La conquista dell’abilità difensiva

06- La preistoria del popolo ferrarese

07- Breve storia dell’evoluzione umana

08- La falsa teoria dell’anello mancante

10- La civiltà etrusca nel Ferrarese

11- Le ipotesi storiche

12- Lo studio del DNA

13- La civiltà di Spina

PRIMA APPARIZIONE DEL FERRO

Alla sua prima apparizione, il ferro non riuscì ad imporsi subito sul bronzo, per diversi motivi: necessitava di una temperatura di fusione assai più alta, era meno duttile alla lavorazione ed era anche più debole del bronzo ma, essendo meno costoso e più facile da affilare (molatura), iniziò ad essere lavorato ed introdotto nella vita quotidiana, grazie anche al fatto che il rame e lo stagno divennero sempre meno reperibili rispetto ad esso.

IL CARBONIO

Col tempo, si scoprì che aggiungendo una piccolissima percentuale di carbonio al ferro, in quantità non superiore al 2% del peso complessivo della massa ferrosa da lavorare, si riusciva ad ottenere con estrema facilità una nuova lega, assai più robusta del bronzo: l’acciaio.

LA SCOPERTA DEL CARBONIO

Ma da dove ricavavano il carbonio quei nostri lontani antenati di circa tremila anni fa? Mentre si stava compiendo il processo di transizione dall’Età del Bronzo all’Età del Ferro, l’uomo scoprì casualmente il processo per arricchire il ferro di carbonio, direttamente sulla sua superficie esterna. In pratica, il ferro era ottenuto direttamente dal suo minerale, all’interno di un forno precedentemente descritto, alimentato da carbone di legna ed “aiutato” dal passaggio forzato di aria. Bruciando il carbone, ne scaturiva monossido di carbonio che si depositava gradualmente sotto forma di scorie, che poi tendevano a raccogliersi in una sorta di “massa spugnosa e porosa“, contenente o carbonio o carburi.

LA SCOPERTA DELL’AUMENTO DELLA ROBUSTEZZA

La scoperta avvenne allorquando, dopo aver fatto nuovamente riscaldare la suddetta massa spugnosa e porosa, si passava all’operazione della battitura“, che aveva lo scopo di espellere anche le ultime scorie, ovvero sia i piccolissimi frammenti di carbone non del tutto bruciati sia le minuscole parti di minerali di vario tipo presenti. Dopo tale operazione ci si accorse ben presto che quel primitivo ferro era diventato qualcosa di diverso, più malleabile e allo stesso tempo più robusto, ma non era ancora acciaio vero e proprio.

LA SCOPERTA DEL PROCESSO DI TEMPRA

Successivamente, si scoprì che riscaldando una lamina di ferro all’interno di un involucro di polvere di carbone, si riusciva a trasformare il suo strato superficiale in acciaio vero e proprio, il quale poteva addirittura essere temprato, ovvero reso più robusto, semplicemente immergendolo in un liquido (acqua, olio o anche orina umana) dopo averlo riscaldato ad una certa temperatura: era stato scoperto il processo di tempra dell’acciaio.

IL BRONZO ERA ANCORA OVUNQUE

Ad ogni modo, la lavorazione del bronzo continuò ancora per parecchio tempo. Esso, infatti, veniva particolarmente impiegato, sotto forma di lamina, nella preparazione di: scudi, elmi, schinieri, cinturoni, lastre metalliche difensive per i cavalli, cocchi, carri da guerra, vasi, coppe, braccialetti, pendagli, collane, fibule, nei bisogni del focolare ed in quelli della mensa.

LE CULTURE DELL’ETÀ DEL FERRO

La civiltà del ferro assunse forme culturali varie e diverse fra le regioni italiche. Nella zona della necropoli ad incinerazione di Golasecca (Varese) si sviluppò la Cultura di Golasecca, detta anche Cultura del Ticino, diffondendosi poi tra Piemonte, Liguria e Lombardia, le cui caratteristiche principali furono rappresentate dalle ceramiche con urne ovoidali e biconiche, dall’oggettistica in ferro, dalle tombe a carro, dal tornio a ruota, dai corredi da toilette in oro e argento.

Diffusasi intorno ad Este, la Cultura Paleoveneta si espanse nella pianura veneta, distinguendosi per gli impasti nero-lucidi con incisioni geometriche e per le ceramiche grigie derivate dall’influenza gallica. Ebbe contatti sia con gli etruschi che con i primi romani.

Nella zona emiliano-romagnola, si presentò la Cultura Villanoviana, dal nome della località di Villanova di Castenaso, in provincia di Bologna, dove furono rinvenuti i resti di una necropoli di quasi duecento tombe ad incinerazione, ceramiche primitive, vasi a figure greche, oggetti metallici ed ornamenti in bronzo. Nella zona etrusca, questa cultura si distinse per le tombe a pozzetto e l’urna a capanna.

Lungo la costa adriatica si sviluppò la Cultura Picena, piena di influssi greci ed etruschi, che si caratterizzò per una particolare impronta nella lavorazione dei metalli rivolti alla creazione di armi.

Verso il Sud della penisola si sviluppò la Cultura Meridionale, decisamente influenzata dalla cultura greca. Una differenza sostanziale fra queste culture e che mentre le prime tre abbandonarono la pratica del seppellimento dei defunti ed adottarono quella della cremazione, nelle rimanenti rimase il rito dell’inumazione nella nuda terra.

LA CONQUISTA DELLA SCRITTURA

La civiltà dell’Età del Ferro ebbe il merito di gettare le fondamenta di un’importantissima conquista, che contribuirono in maniera determinante al progresso dell’uomo: la conquista della scrittura. 

Con ogni probabilità, giunto ad un certo punto del proprio progresso culturale, dopo essere riuscito a perfezionare la comunicazione ed il linguaggio, l’uomo sentì il bisogno di fissare il proprio pensiero su qualcosa di duraturo nel tempo ed inventò i graffiti direttamente sulla nuda pietra, che poi elaborò in dipinti veri e propri.

Passò quindi al linguaggio delle idee elaborando il sistema ideografico (simile all’attuale scrittura cinese), consistente nella “rappresentazione di quei suoni che la sua propria lingua riusciva ad esprimere” in quel dato momento storico.

Fece poi gli ultimi due passaggi che lo condussero prima alla creazione dei suoni sillabici e poi alla realizzazione dell’alfabeto letterale, ovviamente diverso da zona a zona.

LA CONQUISTA DELL’ABILITÀ DIFENSIVA

Un secondo importante progresso dell’uomo dell’Età del Ferro fu la realizzazione dei “castellieri” o “castellare” o “gradine“, ovvero piccoli insediamenti fortificati, specialmente in posizione elevata e perciò più difendibili grazie anche alla costruzione di aggeripalizzate di legno, terrapieni e muraglioni spesso lungo i profili naturali del terreno. L’uomo di quei tempi tendeva, comunque, a mantenere le necropoli esterne al villaggio fortificato.

QUELLA MAGICA FINESTRA DELLA NATURA

Come vi ho spiegato nel primo articolo afferente questo argomento, in un tempo compreso fra dodicimila e seimila anni fa circa i ghiacci cominciarono a ritirarsi, consentendo in tal modo alle steppe ed alle tundre di trasformarsi lentamente in foreste, ed alla preesistente fauna subartica di adattarsi al nuovo clima temperato.

LA PREISTORIA DEL POPOLO FERRARESE

Così, grazie a questa finestra aperta dalla Natura fra il 4.000 ed il 3.500 a.C. circa, ovvero fra seimila e cinquemilacinquecento anni fa, vennero a crearsi le condizioni per poter consentire ad antiche genti neolitiche di provare a fermarsi da queste parti della Pianura Padana, diventando così i primi abitatori del Ferrarese ed iniziando a scrivere in tal modo la vera ed unica “preistoria del nostro popolo“.

IL FUTURO DELL’ARCHEOLOGIA NEL FERRARESE

Le cose che oggi sappiamo di quei tempi così lontani sono legate a quanto è stato fino ad ora effettivamente scoperto sotto al nostro sottosuolo, costituito principalmente da enormi strati di sabbia o di argilla.

Ma se è pur vero che rispetto a quanto scoperto in altre zone d’Italia è certamente poca cosa, è innegabile che non si possa negare l’assunto che l’archeologia possa avere un futuro davvero interessante qui a Ferrara dove molto, appunto, è ancora da scoprire.

BREVE STORIA DELL’EVOLUZIONE UMANA

E se dunque la storia dei primi abitatori del Ferrarese può definirsi “antica rispetto a noi, gente del terzo millennio“, risulta del tutto non comparabile con la presenza di antichissimi esseri, simili esteriormente a noi, ma viventi milioni di anni fa.

Per quel che oggi sappiamo, circa sessantacinque milioni di anni fa comparvero i più antichi primati, del tutto simili alle attuali scimmie, principalmente viventi sugli alberi, in grado di seguire dei comportamenti sociali e di manipolare oggetti.

Insomma, non male come inizio. Certo, però, che se erano già così milioni di anni fa, di quanto tempo avrà avuto bisogno la Natura per portare una cellula fino a quel livello? Fate un po’ voi, ma di tanto, comunque, sia chiaro! E non sono più sufficienti i milioni di anni per avere un risultato di quel livello!

LA FALSA TEORIA DELL’ANELLO MANCANTE

Comunque la macchina si era messa in moto e così sappiamo che quegli esseri che ora chiamerò ominidi e non più “primati“, continuarono nella loro evoluzione.

Prima di addentrarmi ulteriormente nel punto, conviene che vi illumini sulla teoria del cosiddetto “anello mancante“, altrimenti rischierei di avere lettori scientificamente distratti”.

Nel diciannovesimo secolo, trovandosi di fronte all’assenza di rinvenimenti fossili che contribuissero a formare la linea dell’evoluzione umana, il dibattito si sviluppò attorno alla locuzione “missing link” o “anello mancante“, ovvero sembrò a molti che mancasse un anello di congiunzione fra il primate e l’ominide.

A loro favore giocò anche il fatto che il periodo compreso fra gli otto ed i cinque milioni di anni fa, corrispondente al passaggio fra Miocene e Pliocene, non aveva prodotto fossili di alcun tipo, nel senso che non se ne trovavano. Oggi sappiamo che non ci furono le condizioni fisiche e chimiche necessarie alla mineralizzazione ed alla sopravvivenza, quindi, delle ossa.

Per contro, già lo stesso Darwin parlò, fin dall’inizio, non di qualcosa che mancasse sulla nostra linea dell’evoluzione, bensì di forme di transizione che non sempre potevano essere rinvenibili come fossili e che, quindi, avrebbero potuto anche essere scoperte successivamente. Ed aggiunse poi al proprio pensiero che noi non discendiamo direttamente dalle scimmie, ma ci siamo evoluti parallelamente ad esse e per tale ragione, dunque, non vi può essere nessun un anello mancante!

EVOLUZIONE DELL’UOMO

Da 65 a 55 milioni di anni fa circa vi furono, dunque, i più antichi primati, sostanzialmente delle “scimmie”, diffusi principalmente fra Europa e Nord America. Ebbero tre evoluzioni tipologiche: la prima compresa fra 55 e 35 milioni di anni fa circa, la seconda fra 35 e 25 milioni di anni fa circa e la terza fra 25 e 5 milioni di anni fa ma, comunque, continuarono a rimanere quello che erano sempre stati e che saranno per sempre: solo scimmie!

IL RAMAPITHECUS

Gli ominidi, invece, pur appartenendo ad un ceppo simile, ovvero assimilabile a qualcosa che sta fra la scimmia antropomorfa e l’uomo, iniziarono a svilupparsi attorno agli undici milioni di anni fa ed il nostro più antico progenitore fu l’Australopithecus ramidus, conosciuto anche come “Ramapithecus” e vivente in Africa orientale.

L’AUSTRALOPITHECUS AFARENSIS

Dall’Etiopia provengono i resti fossili del suo diretto successore, l’Australopithecus afarensis, a cui afferisce la ben più famosa “Lucy“, vivente fra i quattro e i tre milioni e mezzo di anni fa: una femmina alta circa un metro, non superiore ai trenta chili di peso, certamente arboricola, dalla camminata bipede, ma dall’aspetto ancora scimmiesco in quanto la sua capacità cranica era decisamente modesta: fra i 380 ed i 530 centimetri cubici!

L’ASTRALOPHITECUS AFRICANUS

Fu quindi il tempo dell’Australopithecus africanus, vivente circa tre milioni e mezzo di anni fa e con un’importante evoluzione riguardante la capacità cranica minima, che guadagnava un incremento volumetrico rispetto al tipo “Lucy”, passando così da 400 a 450 centimetri cubici ed aumentava pure nell’altezza, raggiungendo una media di un metro e venti circa.

L’AUSTRALOPITHECUS ABILIS

Venne poi il tempo per un ominide ancora più vicino a noi: l’Australopithecus abilis, vivente circa due milioni di anni fa sempre nella stessa zona di Lucy. Il guadagno minimo e stabile, rispetto a precedenti ominidi, fu davvero importante in quanto la sua capacità cranica si attestò fra i 600 ed i 700 centimetri cubici, mentre l’altezza media guadagnò altri quindici centimetri, passando a circa un metro e trentacinque. Riusciva a lavorare la pietra, solo da un lato, trasformandola in strumento a lui utile.

L’HOMO ERECTUS

Una nuova evoluzione si ebbe con l’arrivo dell’Homo erectus, vissuto un milione e ottocentomila anni fa in Africa e lungo quasi tutta la fascia tropicale, con un aumento impressionante della capacità cranica, che si stabilizzò fra 900 e 1.100 centimetri cubici, mentre si assistette ad una stabilizzazione dell’altezza quasi alle nostre attuali proporzioni: circa un metro e sessantacinque!

Quel nostro antenato fece progressi sulla lavorazione della pietra, riuscendo a trarne strumenti utili su entrambi i lati, ben scheggiati e taglienti: le amigdale, tali da consentirgli di poter provvedere ad accumulare provviste di carne che era già in grado di cuocere sul fuoco.

Aveva già imparato a costruire ripari con: pietre, tronchi, rami e foglie e a ripararsi dal freddo utilizzando le pelli degli animali uccisi. Purtroppo, sembra che anche questa evoluzione di ominidi ancora non fosse in grado di parlare, pur essendo già distanti dalle scimmie, ma non ancora vicini all’uomo.

L’HOMO SAPIENS

Finalmente, trecentomila anni fa circa, apparve in Africa l’Homo sapiens, discendente naturale dell’Homo erectus, che si diffuse pian piano su tutto il pianeta. Presentava una volumetria cranica fra 1.000 e 1.400 centimetri cubici, una cifra quasi impressionante rispetto ai predecessori, ma la forma cranica risultava ancora assai scimmiesca.

Noi oggi lo potremmo definire colonizzatore poiché dall’Africa, circa settantamila anni fa, a causa di una situazione climatica critica, iniziò una migrazione dapprima verso il Medio Oriente e poi verso l’intero pianeta. Era un essere altamente sociale, che utilizzava tranquillamente il fuoco, cuoceva il cibo, si copriva con vesti e possedeva molta tecnologia manuale.

L’UOMO DI NEANDERTHAL

Quasi in concomitanza con il Sapiens, fra duecentomila e quarantamila anni fa, visse l’Uomo di Neanderthal, ma la sua presenza viene ufficialmente certificata solo attorno ai centoventimila anni fa. Presentava una capacità cranica ben superiore ai suoi predecessori: da un minimo di 1.200 ad un massimo di 1.400 centimetri cubici, ma dovette combattere contro un clima estremamente rigido e la sua vita dipendeva dalla caccia, che praticava sempre in gruppo.

I suoi ripari andavano da quelli naturali a quelli artificiali. viveva negli anfratti rocciosi e nelle caverne, ma era in grado di costruire agevolmente capanne e focolari. 

Non era proprio una bellezza da vedere, avendo il corpo peloso, la fronte bassa e sfuggente, le spalle enormi e le gambe arcuate che, però, riusciva agevolmente a distendere. La sua postura era perfettamente eretta.

Si dipingeva il corpo con l’ocra, spesso si perforava i denti e, forse, lasciava uno spazio piccolissimo anche per l’arte, se si considera come afferente alla cultura Neanderthaliana il flauto d’osso a tre buchi, rinvenuto nel 1996 in Slovenia. Indubbiamente, seguiva “pratiche religiose” legate al rituale funebre, inumava i corpi dei defunti in posizione rannicchiata e accompagnava la cerimonia con offerte di cibo e strumenti.

SCOMPARSA DEI NEANDERTHALIANI

Si estinse in maniera assai graduale, circa trentacinquemila anni fa, per cause ancora non del tutto chiarite o sufficientemente dimostrate.

Secondo l’ipotesi classica, sappiamo che attorno a quel periodo le variazioni climatiche costrinsero i Neanderthaliani a migrare verso le terre del Sud e Sud-Ovest del pianeta, dove ebbero modo di incontrare loro simili dotati di tecnologie leggermente superiori, per cui potrebbe essere probabile una fusione con altri popoli più che un’estinzione di queste genti.

Secondo l’ipotesi più recente, relativa all’analisi del suo cromosoma Y ed effettuata su di un maschio vissuto circa cinquantamila anni fa a El Sidron (Spagna), si è riscontrato che era del tutto diverso da quello dell’uomo moderno: il DNA Neanderthaliano presentava tre geni immunitari, diversi fra loro, uno dei quali avrebbe prodotto antigeni che a loro volta avrebbero provocato una risposta immunitaria delle femmine incinte.

In pratica, i feti maschi aventi quel gene sarebbero stati abortiti. Secondo tale ipotesi, pur entrando i Neanderthaliani in contatto con i Sapiens delle regioni del Sud, Sud-Ovest, non sarebbero più stati in grado di generare maschi sani e ciò avrebbe portato alla loro naturale estinzione.

L’UOMO SAPIENS SAPIENS

Con l’arrivo dell’uomo Sapiens sapiens, a partire da circa settantamila anni fa, ma stabilizzatosi dopo la scomparsa dei Neanderthaliani, possiamo dire che abbia avuto inizio la nostra storia, e quindi sostenere che noi siamo gli ultimi Sapiens Sapiens. Questa razza ha attraversato il Mesolitico, il Neolitico e l’Età dei Metalli. La volumetria della sua scatola cranica si è stabilizzata fra i 1.300 ed i 1.400 centimetri cubici mentre l’altezza risulta compresa fra un metro e sessantacinque ed un metro e ottantacinque, ovvero praticamente la nostra attuale a distanza di tante migliaia di anni.

CHI POPOLAVA LE NOSTRE ZONE TREMILA ANNI FA?

Fra la fine del IX e l’inizio dell’VIII secolo a.C., ovvero circa 2.800 anni fa, ebbe praticamente inizio la storia delle gente etrusca in Italia. Essi, circa un secolo dopo, quindi attorno a 2.700 anni fa, iniziarono una lenta penetrazione verso la foce del Po, probabilmente spinti dalla necessità di avere sbocchi marittimi commerciali verso la Grecia.

Con tale manovra si appropriarono dei territori in corrispondenza degli sbocchi marittimi della già esistente Adria e della nascente Spina, ma per giungere là dovettero prima espandersi e poi dominare il territorio dell’entroterra, costituito dal Bolognese, dal Mantovano e dal Ferrarese.

IPOTESI SULLA PROVENIENZA DEGLI ETRUSCHI

Da dove provenissero quelle genti rimane ancora un mistero, per cui si viaggia ad ipotesi.

IPOTESI DI ERODOTO

La prima ipotesi, formulata quasi cinque secoli prima di Cristo dagli storici ionici più antichi, venne ripresa da Erodoto il quale sostenne che le genti chiamate “Tyrrenor” o “Tyrsenoiprovenivano dalla Lidia, in Asia Minore (dalle parti dell’attuale Turchia), quaggiù condotti da Tyrrenus, figlio di Ati, re della Lidia appunto.

IPOTESI DI ANTICLIDE ED ELLANICO

La seconda ipotesi fu formulata circa un secolo dopo dallo storico ateniese Anticlide, vissuto a cavallo fra il IV ed il III secolo d.C., il quale sostenne che i Tirreni sarebbero provenuti dall’isola di Lemno o da quella di Imbro, situate nel mar Egeo, ma non si sarebbe trattato dei Tirreni al 100%, bensì di popolazioni preelleniche ed autoctone della Grecia, unitesi volontariamente alla spedizione dei Tirreni. Identica ipotesi ebbe a sostenere, ma non in forma scritta, Ellanico di Mitilene, il grande storico greco del V secolo avanti Cristo.

Dunque, sull’ipotesi della misteriosa provenienza di questo popolo che scrisse un’importantissimo capitolo dell’antica storia dell’italico suolo si erano spese le più illustri menti del passato.

A sostegno dell’ipotesi di Erodoto potrebbe giocare una componente assai importante, ovvero il fatto che in alcuni testi egizi venissero citati diversi popoli dei mari, fra i quali i “Tereš“, provenienti dall’Anatolia settentrionale, il cui nome si collegherebbe facilmente con quello dei “Tirsenoi” suddetti, poi chiamati “Tirreni“, ovvero gli Etruschi.

Se ciò dovesse rivelarsi attendibile, come del resto sembra dalla carte sul tavolo, si aprirebbe un’autostrada in favore dell’ipotesi di una “stretta parentela” fra di loro ed i ben più mitici Troiani dell’Eneide, dovuta non solo ad una vicinanza geografica notevolissima fra l’isola di Lemno e l’antica Troia, ma anche alla lingua presente nella “Stele di Lemno“, assai simile alla lingua scritta degli Etruschi ed ascrivibile al VI secolo prima di Cristo.

IPOTESI DI DIONISIO DI ALICARNASSO

Queste tre illustrissime personalità del mondo antico (Anticlide, Ellanico di Mitilene ed Erodoto) ebbero, però, un fiero oppositore nello storico greco Dionisio d’Alicarnasso, vissuto circa cinque secoli dopo di coloro, che vissero solo qualche secolo dopo l’inizio dell’epopea etrusca e quindi ben più vicini a quel popolo in linea temporale.

Nella sua opera di maggior prestigio, intitolata “Rhomaikè archaiología” o Antichità romane, Dionisio sostenne semplicemente che non v’erano immigrati da alcuna parte fra gli Etruschi i quali, pertanto, erano da ritenersi gente autoctona, ovvero certamente stanziata in quei luoghi da epoche remote, se non remotissime. La sua ipotesi, però, non incontrò quasi mai i favori degli storiografi, degli storici, dei lirici e né dei poeti.

ALTRE IPOTESI

Un aiuto assai concreto per districare quella matassa avrebbe potuto provenirci dalla monumentale opera sugli Etruschi denominata “Τυρρηνικά” e per noi diventata “Tyrrhenikà“, ma andata interamente perduta in epoca medievale. Scritta in greco e suddivisa in venti libri, fu voluta dall’imperatore Claudio, forse perché sposò Plauzia Urgulanilla, di sangue etrusco. E assieme alla storia vera del popolo etrusco andarono perdute, non si sa bene in quale modo, anche tutte le antichissime traduzioni latine. Oggi disponiamo “solo” di circa tredicimila iscrizioni, che sono state raccolte nel Corpus Inscriptionum Etruscarum e nel Thesaurus linguae Etruscae.

LO STUDIO DEL DNA ETRUSCO: GUIDO BARBUJANI

Ovviamente, le teorie sulla provenienza degli Etruschi sono state diverse nel corso dei secoli e dei millenni, ma uno studio scientifico, basato sulla genetica delle popolazioni, venne condotto solo a Ferrara, nel 2004, allorquando il professor Guido Barbujani, del Dipartimento di Biologia dell’Università di Ferrara, analizzò il DNA contenuto nelle ossa di alcuni scheletri provenienti da tombe etrusche dislocate in zone diverse dell’antica Etruria.

I risultati furono illuminanti, al di là di tutte le teorie deduttive fino ad allora formulate: il DNA degli antichi Etruschi risultò essere “abbastanza simile a quello degli attuali abitanti dell’Anatolia“, mentre non risulterebbero particolari affinità con quello dell’attuale popolazione delle zone d’Italia che furono abitate dagli Etruschi.

LO STUDIO DEL DNA ETRUSCO: ANTONIO TORRONI

A questo nuovo atteggiamento scientifico partecipò anche il professor Antonio Torroni, dell’Università di Pavia, il quale, nel 2007, raffrontò il DNA degli abitanti viventi da almeno tre generazioni nei centri di Murlo, Volterra e della Valle del Casentino con quello di altre popolazioni italiane ed estere. Dai risultati emerse che il codice genetico degli individui italiani si mostrò molto più simile a quello degli abitanti delle coste turche che danno sull’Egeo.

LO STUDIO DEL DNA ETRUSCO: PAOLO AIMONE MARSAN

La strada genetica proseguì poi con gli studi condotti dal professor ordinario di miglioramento genetico animale Paolo Ajmone Marsan, dell’Università del Sacro Cuore di Piacenza, il quale analizzò il DNA di alcune razze di bovini toscani (Chianina e Maremmana) e scoprì che esso risultava “geneticamente simile” a quello dei bovini dell’Anatolia.

ULTIMO STUDIO DEL 2013

Si giunse, infine, allo studio del 2013, condotto direttamente sui campioni genetici provenienti di alcune necropoli etrusche dell’Italia centrale, che portò a formulare l’ipotesi, assai reale, che esistessero legami genetici tra le popolazioni etrusche e quelle anatoliche e che dovrebbero essere ricondotti a ben più di 5000 anni fa, escludendo in tal modo l’ipotesi di Erodoto (che non disponeva di strumenti scientifici di quel tipo), afferente un’migrazione di un intero popolo in epoca più recente.

Insomma, credo che il lettore abbia tratto facilmente la propria conclusione: gli Etruschi ed i loro animali provenivano certamente dalle regioni anatoliche e si insediarono in luoghi dove c’erano sporadiche, ma preesistenti ed antichissime genti italiche, ovviamente afferenti il vasto bacino della civiltà villanoviana.

Quello che invece non sappiamo bene è lo stabilire da dove siano giunti gli Etruschi, in quanto gli storici antichi più famosi, come vedremo fra poco, non sono per niente d’accordo con gli storici del nostro tempo!

ESPANSIONE ETRUSCA SU SPINA

Come abbiamo visto, ad un certo momento della loro storia, probabilmente verso la fine del VI secolo avanti Cristo, gli Etruschi ebbero necessità di sfoghi commerciali verso l’Adriatico e si insediarono nell’attuale zona spinetica, impiantando ex-novo il loro abitato sui dossi emergenti dalle lagune e là vi rimasero almeno fin verso la metà del terzo secolo avanti Cristo.

Poi, a causa delle continue invasioni barbariche e delle mutate condizioni climatichel’abitato spinetico iniziò gradualmente a spogliarsi, pur mantenendo importanti attestazioni della sua presenza ancora durante la Roma imperiale.

Di certo, quando arrivarono gli Etruschi, tutta la zona circostante, considerata rispetto all’attuale territorio bassa-Emilia ed alta-Romagna, era abitata sia da genti autoctone, genti indigene e genti elleniche. Quindi, stando agli storiografi moderni, un fattore essenzialmente commerciale avrebbe portato in questa direzione gli Etruschi: nel porto spinetico, similmente a quello gemello di Adria, pulsava il cuore del commercio marittimo etrusco in Adriatico!

Poiché a Spina non si coniò mai moneta e le uniche cose “con valore economico” furono il sale e l’aes rude“, ovvero un pezzo di bronzo non lavorato ed irregolare, suppongo che il commercio fosse basato quasi esclusivamente sulla base dello “scambio.

LA SPINA DESCRITTA DA STRABONE

Notizia su Spina ci sono pervenute da antichi autori. Strabone, geografo e storico greco vissuto tra il 64 a.C. ed il 24 d.C., sulla cui autorevolezza nessuno può discutere, nella sua opera intitolata “Gheographikà“, scrisse che la cittadina di Altino si trovava, similmente a Ravenna, in mezzo alle paludi e da quelle parti sorgeva Spina, che ai suoi tempi era un solo un borgo, ma nei tempi floridi fu una famosa città ellenica. Aggiunse poi che si diceva, sempre ai suoi tempi, che anticamente la città di Spina fosse sviluppata lungo la costa, di fronte all’Adriatico, ma ciò che i suoi occhi videro era solo un abitato distante dal mare circa novanta stadi.

Ecco di seguito riportato il testo integrale (Gheographikà, Vol. 3, Libro X, capitolo II Della Celtica (o Gallia) Cisalpina: “… Fra le città poi situate nelle paludi la maggiore è Ravenna, tutta fabbricata in legno e attraversata da correnti d’acqua, sicché vi si cammina o sopra ponti o sopra barche che servono a tragittar pei canali.

Quando gonfiasi la marea questa città riceve dentro di sé non piccola parte di mare; ed essendo così da queste acque e dai fiumi spazzato via tutto quanto vi ha di fangoso, l’aria per sé stessa cattiva ne rimane per così dire medicata; e quel luogo è perciò tanto salubre, che i principi ordinarono di nutrirvi ed esercitarvi i gladiatori.

Ha pertanto quel paese questa mirabile particolarità, che in mezzo alle paludi l’aria vi è nondimeno senza infezione; come avviene ad Alessandria d’Egitto, dove in tempo di state, il lago perde il suo cattivo effluvio per gonfiarsi del fiume che nasconde sotto di sè i luoghi palustri.

Ma è mirabile eziandio la natura della vite in que’ paesi; perocché alligna nelle paludi, e cresce celermente, e porta abbondevole frutto, ma si consuma in quattro o cinque anni.

Anche Altino è situata nelle paludi, in una posizione somigliante a quella di Ravenna. Fra mezzo trovansi Butrio castello di Ravenna, e Spina che ora è un borgo, e anticamente fu una ragguardevole città ellenica.

Però in Delfo suol farsi vedere il tesoro degli abitanti di Spina, ed altre cose sogliono raccontarsi intorno ad essi, siccome d’un popolo stato una volta potente in mare. E dicono che anticamente questa città era situata lungo il mare; ma ora è invece dentro terra, e distante dal mare circa novanta stadii.

Rispetto a Ravenna è fama che la fondassero i Tessali; i quali non potendo poi comportare le insolenze dei Tirreni, ricevettero volentieri tra loro alcuni Umbri, che occuparono tuttora quella città; ed eglino, i Tessali, se ne tornarono alle loro sedi di prima.

Queste città adunque sono circondate nella maggior parte della loro periferia dalle paludi, per modo che ne sono anche qualche volta innondate. Ma Epiterpo (Oderzo), Concordia, Atria ed Ucezia (Vicenza) ed altre consimili cittadelle sono manco soggette alle paludi, e comunicano col mare per mezzo di piccoli canali. E dicono che Atria fu un’illustre città, tanto che da quella venne il nome al golfo Adriatico colla mutazione di una sola lettera …”.

Nel Libro IX, parlando poi del tempio dedicato a Delfo, Strabone lo descrisse come “poverissimo”, pur sottolineando il fatto che al tempo di Omero fosse l’esatto opposto qui, infatti, si custodivano i “… voti consacrati da vincitori come primizie del bottino guadagnato nelle loro guerre: e vi si leggevano ancora le iscrizioni che attestavano l’origine di quei doni ed i  nomi dei donatori. Così leggevasi per esempio di Gige, di Creso, dei Sibariti, degli Spineti sul Golfo Adriatico (essendovi un’

altra Spina su altri lidi), e simili. Né si creda che i voti antichi fossero allora confusi coi più recenti …”.

LA SPINA DESCRITTA DA PLINIO IL VECCHIO

 Altre notizie su Spina ci sono pervenute da Plinio il Vecchio (Gaio Plinio Secondo o Gaius Plinius Secundus), vissuto tra il 23 ed il 79 d.C., scrittore, naturalista, ammiraglio, autore della monumentale Naturalis historia, formata da 37 volumi. Egli, nel Libro Terzo “Geografia dell’Europa Occidentale“, al verso 120 così scrisse: ” … hoc ante Eridanum ostium dictum est, ab aliis Spineticum ab urbe Spina, quae fuit iuxta, praevalens, ut Delphicis creditum est thesauris, condita a Diomede.

Auget ibi Padum Vatrenus amnis ex Forocorneliensi agro. Proximum inde ostium Caprasiae, dein Sagis, dein Volane, quod ante Olane vocabatur, omnia ea fossa Flavia, quam primi a Sagi fecere Tusci egesto amnis impetu per transversum in Atrianorum paludes quae Septem Maria appellantur, nobili portu oppidi Tuscorum Atriae, a quo Atriaticum mare ante appellabatur quod nunc Hadriaticum…”.

LA SPINA DESCRITTA DA DIONIGI DI ALICARNASSO

Altre importanti notizie su Spina ci pervengono da Dionigi o Dionisio di Alicarnasso, storico ed insegnante di greco, vissuto tra il 60 ed il 7 a.C., attraverso la sua opera maggiore “Rhomaikè archaiología” o Antichità romane), divisa in venti libri, dei quali completi solo i primi nove.

Egli trattò l’argomento di Spina nel Libro 1, ai paragrafi IX, X e XI (nono, decimo e undicesimo).

Egli così si espresse nel paragrafo IX : “Dopo questo alcuni de’ Pelasghi che abitavano la regione ora detta Tessaglia costretti di trasmigrarne, divennero gli ospiti degli Aborigeni … sono pure i Pelasghi un greco lignaggio, antichissimo del Peloponneso …

E certo abitarono sul le prime la città che ora chiamasi Argo di Acaja, traendo il nome di Pelasghi da Pelasgo, loro sovrano… Poi, nella sesta generazione lasciato il Peloponneso, passarono nella Emonia che ora Tessaglia si nomina … ne cacciarono i barbari che la abitavano, e la divisero in tre regioni… Fissi colà da cinque generazioni … intorno alla sesta generazione ne furono espulsi da Cureti, e da Lelegi che ora sono gli Etoli ed i Locri …”.

Proseguendo poi nel paragrafo X, Dionisio ci fornisce le seguenti notizie: “ Dispersi nella fuga, altri vennero in Creta, altri ottennero alcune delle Cicladi. Alcuni abitarono la regione intorno di Olimpo e di Ossa … ed altri furono portati nella Beozia, nella Focide e nella Eubea: alcuni tragittandosi in Asia occuparono molte delle spiagge dell’Ellesponto e molte delle isole dirimpetto, e quella che ora Lesbo si chiama …

La maggior parte però dirigendosi entro terra a’ loro parenti i quali albergavano in Dodona … abitarono quivi alcun tempo: ma poiché si avvidero che erano di aggravio, non bastando la terra a nutrire tutti in comune, se ne involarono, mossi dall’oracolo che ordinava loro di navigare in verso la Italia, allora chiamata Saturnia.

E fatto apparecchio in copia di navi, passarono il mar Jonio, procurando giungere in parti presso la Italia. Ma per vento di mezzogiorno, e per la imperizia de’ luoghi, portati più oltre capitarono a una delle bocche del Po chiamata Spineto e quivi lasciarono le navi, e la turba meno idonea ai travagli con un presidio, per avervi una ritirata se i disegni non riuscivano.

Or questi rimanendo in quella regione circondarono di muro il campo dell’esercito, ed introdussero con le navi copia di vettovaglie. E poi che videro suddere loro le cose come voleano, fabbricarono una città col nome appunto della bocca del fiume.

Da ultimo però venendo amplissima guerra su loro da’ barbari intorno, lasciarono la città, donde anche i barbari furono dopo un tempo cacciati da’ Romani. Così mancarono i Pelasghi lasciati a Spineto“.

Una cosa rimane comunque certa, indipendentemente da quanto sia stato scritto dai più grandi storici del passato: dopo le scoperte archeologiche di Bologna e Marzabotto, afferenti la grande regione dell’Etruria Padana, appare assai difficile considerare l’abitato spinetico autonomo ed indipendente dal contesto del potere politico ed economico etrusco. Tuttavia, Spina seppe essere non solo un luogo ad alta influenza ellenica ed etrusca ad un tempo, ma anche un centro naturale d’incontro e di scambio fra il mondo ellenico, orientale ed italico.

 

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