Preistoria nel Ferrarese

antico-ambiente-ferrarese-ducato-di-ferraraABSTRACT – All’incirca fra dodicimila e seimila anni fa i ghiacci cominciarono a ritirarsi, le steppe e le tundre iniziarono a trasformarsi lentamente in foreste, mentre la preesistente fauna subartica si adattò ben presto al nuovo clima temperato. Per il territorio ferrarese fu probabilmente grazie a questa finestra aperta dalla Natura, circa 6.000 anni fa, che vennero a crearsi le condizioni per poter consentire ad antiche genti neolitiche di provare a fermarsi da queste parti della Pianura Padana, diventando così i primi abitatori del Ferrarese ed iniziando a scrivere in tal modo la vera ed unica “preistoria del nostro popolo“.

ARGOMENTI PRINCIPALI DELL’ARTICOLO

01- Il futuro dell’archeologia locale

02- Antico insediamento nell’area padana

03- E nel Ferrarese?

04- L’uomo del Ferrarese

05- Acque e ambiente di transizione

06- Seimila anni fa: l’alba dell’uomo padano

07- I due grandi fiumi

08- L’evoluzione territoriale antica

09- Antiche tracce di vita e di morte

10- Dove si trovano le tracce?

11- Dove si trovavano gli insediamenti?

12- Le strade arginali

13- Le strade alzaie

14- Le ere geologiche

15- L’uomo del Paleolitico

16- Il ruolo della donna nel Neolitico

17- Dalla caverna alla capanna

18- Nuove armi e nuovi strumenti

19- Il commercio

20- La ceramica

21- Il senso religioso

22- Dai primati agli ominidi: l’evoluzione umana

23- Estinzione dei Neanderthaliani

24- L’età del Rame

25- L’Età del Bronzo

26- La civiltà lacustre e delle Terramare

27- L’Età del Ferro

28- Il Neolitico dalle nostre parti

29- Resti di un mammut e di un megacero

30- Il villaggio terramaricolo presso la Fornace Grandi

31- Il villaggio terramaricolo di Pilastri

32- Il villaggio di Santa Maddalena dei Mosti

IL FUTURO DELL’ARCHEOLOGIA LOCALE

Ovviamente, ciò che si sa di quel tempo così lontano è legato a quanto è stato fino ad ora effettivamente scoperto sotto al nostro sottosuolo, ricoperto da enormi strati di sabbia o di argilla, ma se è pur vero che rispetto a quanto scoperto in altre zone d’Italia è certamente poca cosa, è innegabile che non si possa negare l’assunto che l’archeologia possa avere un futuro davvero interessante qui a Ferrara dove molto, appunto, è ancora da scoprire.

ANTICO INSEDIAMENTO NELL’AREA PADANA

Ovviamente, se prendessi in considerazione tutta l’Area Padana, dovrei fare ragionamenti ben diversi in quanto tale area comprende, oltre alle tipiche “terre lacustri ferraresi“, anche le zone marittime, le collinari e le appenniniche. Ad esempio, grazie ai ritrovamenti effettuati nell’area di Forlì, presso la località Ca’ Belvedere, situata nella parte alta del versante settentrionale del colle di monte Poggiolo, a circa centosettanta metri sul livello del mare, sappiamo con certezza che lì, quasi un milione di anni fa, vivevano esseri umani; Infatti, in seguito agli scavi iniziati a partire dal 1983, sono stati rinvenuti migliaia di reperti litici, prevalentemente selci scheggiate, tutte con la stessa tecnica e con lo stesso tipo di taglio, risalenti ad un tempo compreso fra gli ottocentomila ed i novecentomila anni fa!

E NEL FERRARESE?

Dunque, se circa un milione di anni fa c’era gente da quelle parti, a poco più di settanta chilometri da Ferrara (come dire la distanza “Ferrara-Lidi ferraresi”), che trascorreva gran parte del proprio tempo a scheggiare pietre, a mo’ di una vera e propria industria litica preistorica, è lecito supporre almeno due cose: innanzitutto, che quell’enorme ed intensa attività fosse indirizzata non solo agli autoctoni locali, ma anche alle genti dei dintorni, poi che qualcuno di quei “primitivi romagnoli” si sia pure spinto almeno fino ai confini meridionali di questo impraticabile “ambiente di transizione” che è il Ferrarese, schiacciato e compresso nella morsa quasi mortale delle acque dolci, marine e salmastre, magari solo per visitarlo ed avere così la conferma che non era ancora pronto per essere abitato in sicurezza.

Ora, poiché l’Età del Rame fa riferimento ad almeno mille anni prima dei reperti provenienti dalla Fornace Grandi e nessuno ha ancora scoperto nulla al riguardo (né asce, né pugnali, né spade, né lance, né punte di freccia, né arte chiaramente attribuibile), sembra che il Ferrarese non sia stato toccato dall’insediamento. Ed è anche logico crederlo! Non occorre un genio che lo certifichi in quanto il periodo dello scioglimento dei ghiacci si è concluso circa seimila anni fa, appunto, ed il Ferrarese si trova esattamente in quel mesto territorio deltizio deputato a ricevere, raccogliere e convogliare a mare le acque di molti fiumi, ma principalmente del Po ed del Reno. Semplice, dunque, capire questo aspetto di “mancato insediamento prima di un certo periodo“, offrendo così una chiara risposta all’interrogativo di quando siano potute arrivare quaggiù le prime genti, decidendo quindi di nominare il Ferrarese a loro nuova patria. E da dove questi nostri antichi antenati siano giunti ve lo racconterò nel successivo articolo. Per ora accontentatevi di leggere questo, che non è proprio così breve, a dir il vero e, tra l’altro, mi pare anche assai interessante.

L’UOMO DEL FERRARESE

Comunque sia andata, è certo che a Bondeno, a soli venti chilometri da Ferrara, presso la vecchia Fornace Grandi (di cui parlerò più sotto), almeno tremila anni prima di Cristo, quindi circa cinquemila anni fa, vivevano i primi veri abitatori del Ferrarese: era un piccolo ma operoso popolo, che abitava all’interno di un bellissimo villaggio terramaricolo composto da almeno una ventina di capanne, i cui fondi vennero miracolosamente scoperti all’inizio degli anni ’50, durante i lavori di estrazione di argilla dalla vicina cava.

ACQUE E AMBIENTE DI TRANSIZIONE

Ma chi avranno mai potuto essere i primi abitatori del Ferrarese, ovvero quei nostri lontanissimi progenitori che, con sforzi davvero sovrumani, riuscirono ad adattarsi, fin dalla Preistoria dell’uomo, a quel terribile “ambiente di transizione” costituito dal connubio di acque salate marine ed acque dolci interne, compiendo in tal modo un’impresa tanto ardua quanto folle? Di certo vi fu un’impari lotta contro la Natura per riuscire ad adattarsi ed a sopravvivere in queste “terre lacustri“, immerse ed imbevute di acque di ogni tipo: marine, dolci, salmastre e malsane.

SEIMILA ANNI FA: L’ALBA DELL’UOMO PADANO

Quel che si sa per certo, in base ai ritrovamenti effettuati a Fiorano Modenese, distante poco più di cento chilometri da Ferrara per via stradale, ma a soli sessanta chilometri in linea d’aria, quattromila anni prima di Cristo e perciò solo seimila anni fa, qui viveva una fiorente civiltà, dedita all’industria litica, alla caccia, all’allevamento, all’agricoltura e all’arte. Quei nostri primi progenitori costituirono quella che oggi definiamo col termine di “Cultura di Fiorano“, a grandi linee racchiusa fra: Modena, Reggio Emilia, Verona, Rovigo, Ferrara, Bologna, Lugo e parte della Romagna interna.

I DUE GRANDI FIUMI

Spesso, viaggiando velocemente con la mente a ritroso nel tempo, immagino genti immerse in una Natura padrona e sovrana su tutto, matrigna e benigna ad un tempo: dai prati immensi, interamente ricoperti da piantagioni dorate di granaglie di ogni tipo, che si perdono silenziosi sulla linea dell’orizzonte, ai cupi ed impenetrabili paesaggi boschivi, faticosamente emergenti da acque malsane e putride, logica ed inevitabile conseguenza delle continue esondazioni e dei frequenti straripamenti dei fiumi Enza (Reno) e Bodincus (Per le genti Liguri, di cui vi parlerò più avanti, il Bodinkos o Bodenkus era il modo che avevano, nella loro lingua, di chiamare un grande fiume, definendolo in tal modo con un significato assai simile a quello con cui noi oggi indichiamo una “profonda fossa).

E nonostante la loro pressoché totale inospitalità di fondo, le nostre antichissime terre trovarono abitatori sia fra i Romani che fra gli Etruschi, ma prima ancora che arrivassero dalle nostre parti questi ultimi, chi avrebbe mai potuto decidere di fermarsi in ambienti tanto inospitali?

L’EVOLUZIONE TERRITORIALE ANTICA

Le nostre terre di superficie si sono infatti formate in seguito all’aumento ininterrotto dei depositi lasciati dalle esondazioni e dagli straripamenti dei corsi d’acqua suddetti, per cui la rete idrografica è stata “vittima e causa” della strutturazione e della costruzione del territorio ferrarese, così come ora lo conosciamo e che, nel corso dei secoli, ha dovuto fronteggiare diverse tipologie di nemici: l’evoluzione geologica specifica delle zone confinanti con il mare, la sedimentazione da esondazione, la subsidenza naturale del terreno ed il vorticoso alternarsi delle condizioni climatiche.

Insomma, le quantità sempre diverse di acque trasportate a valle hanno determinato un costante e diverso alternarsi di fasi erosive e fasi sedimentarie il cui reale valore lo può apprezzare solo quell’archeologo che punti al rinvenimento di reperti a profondità anche di decine di metri.

Così la mia curiosità mi ha portato ad indagare questo meraviglioso argomento ed ora vi narrerò la storia delle origini più antiche delle nostre genti, in un lungo ed emozionante viaggio attraverso milioni e milioni di anni.

ANTICHE TRACCE DI VITA E DI MORTE

Andare con la mente a ritroso nel tempo non è un’operazione molto difficile, e in un battibaleno arrivi facilmente a vedere l’immagine di uomini primitivi che si aggirano fra i boschi e le acque, ma trovare poi le tracce della loro reale presenza proprio qui, nel Ferrarese, ovvero la testimonianza diretta del loro passaggio o del loro insediamento, diventa un’operazione davvero difficile, sarei tentato di dire quasi ardua. Ed i motivi non sono neanche tanto difficili da comprendere.

DOVE SI TROVANO LE TRACCE?

Normalmente, le tracce si trovano “sotto o dentro a qualcosa” e nei nostri ambienti le si deve sostanzialmente ricercare nei sedimenti i quali, però, non sono tutti uguali fra di loro, ovvero non hanno la stessa costituzione e, trovandosi a profondità diverse, anche di decine di metri, non hanno nemmeno lo stesso spessore, per cui sembra davvero quasi impossibile parlare dei più antichi insediamenti umani.

DOVE SI TROVAVANO GLI INSEDIAMENTI?

Poiché l’ambiente era qualcosa di assai simile a piccole isole circondate da acque di ogni tipo, è ovvio che le prime e più antiche genti fermatesi sulle nostre terre avessero posto i loro insediamenti sopra alle uniche zone possibili: ovvero gli argini fluviali che, purtroppo, oltre a determinare le condizioni per la vita determinavano anche le condizioni per la morte a causa delle frequentissime esondazioni conseguenti le “piene”: allorquando le acque rompevano gli argini o li superavano dopo aver raggiunto la loro sommità, non ce n’era più per nessuno e solo la conquista fisica di un nuovo “polesine” (Se ti interessa il significato di questa parola, tipica delle nostre zone, leggi questo mio articolo) un po’ più alto, avrebbe potuto determinare le nuove condizioni per il proseguimento della vita.

Ma sia che si trattasse di inondazione o esondazione o di straripamento accadeva, purtroppo, anche quel fatto del tutto naturale consistente nella cancellazione quasi totale delle tracce dell’insediamento abitativo in quella determinata zona arginale per cui, nel Ferrarese, si può affermare con certezza totale che l’evoluzione territoriale sia stata continua ed incessante, assumendo così la forma di “vera causa primaria dell’apparente assenza di antiche tracce della presenza umana“.

LE STRADE ARGINALI

La ricerca scientifica di appassionati archeologi nostrani ha però condotto alla scoperta di qualcosa che non si trovava propriamente “lontano” dall’argine interessato all’incessante movimento delle acque, ma addirittura nella zona compresa fra i due argini, ovvero nel paleoalveo.

Esatto, proprio nel paleoalveo dei nostri antichissimi e più importanti corsi d’acqua si è scoperta sia la presenza della maggior parte delle aree abitate da quei nostri lontanissimi antenati che la presenza di “aree di contatto arginali“, che oggi potremmo benissimo chiamare “strade ordinarie“.

LE STRADE ALZAIE

Ma si è anche scoperta la presenza, sempre sugli argini, di vere e proprie strade di servizio “sopraelevate”, un tempo definite “strade alzaie“, utilizzate per trainare imbarcazioni controcorrente con l’utilizzo di corde (dette “alzaie“), robuste braccia o animali da tiro come i buoi ed i cavalli. Ovvio che, oltre a questo tipo di strade, durante il periodo dei Romani si sia assistito alla costruzione di importanti vie di comunicazione di cui parlerò a parte. Ma prima di parlare degli antichissimi abitatori che riuscirono a stabilirsi nelle nostre zone del Ferrarese, è opportuno conoscere almeno in maniera rudimentale le ere geologiche.

LE ERE GEOLOGICHE

Noi, viventi nell’anno 2016, ci troviamo all’interno dell’Era Quaternaria, meglio conosciuta come “Era antropozoica“, poiché comprende il tempo in cui è comparso l’essere umano. Tuttavia, i geologi dividono tale tempo storico in due parti: la prima è detta Pleistocene (iniziata circa 2,5 milioni di anni fa, interessa i periodi delle grandi glaciazioni), la seconda è detta Olocene (iniziato circa 12.000 anni fa, comprende il periodo della stabilizzazione delle condizioni climatiche) ed è suddivisa in: Mesolitico, Neolitico ed Età dei metalli.

L’Era Quaternaria è stata preceduta: dalla Terziaria o Cenozoica (da 65 milioni a 2,5 milioni di anni fa), dalla Secondaria o Mesozoica (da 225 milioni a 65 milioni di anni fa), dalla Primaria o Paleozoica (da 570 milioni a 225 milioni di anni fa circa) e dalla Precambriana o Archeozoica (da 4 miliardi di anni fa circa a 570 milioni di anni fa).

IL PALEOLITICO

È il primo periodo della Preistoria ed è suddiviso in tre parti: Inferiore, Medio e Superiore e comprende un tempo che spazia circa fra 2 milioni di anni fa a 10.000 anni prima di Gesù Cristo. Ciascuna parte viene poi suddiviso in “periodi culturali“, riferiti alle località che furono sede di resti tipici di quelle genti, ovvero delle manifestazioni della loro attività umana.

Le culture più note del Paleolitico Inferiore sono: la Chelleana (da Chelles, Francia), la Abbevilliana (da Abbeville, Francia), la Acheuleana (da Saint Acheul, Francia), la Micocchiana (da La Micoque, Francia), la Clactoniana (da Clacton on Sea, Inghilterra) e la Tayaziana (da Tayac, Francia). Quelle lontane genti usavano lo strumento litico noto come “amigdala“, costituito da una pietra a forma di mandorla, resa tagliente lungo i bordi.

IL PALEOLITICO IN ITALIA

Ovviamente, l’uomo del paleolitico viveva anche in Italia. Per il Paleolitico Inferiore si ricordano le seguenti località: a Quinzano (Veneto), nella Valle del Correcchio (Emilia), a Torre in Pietra (Roma), nella Valle della Vibrata (Teramo), a Cepagatti (Pescara), a Madonna del Freddo (Abruzzo), a Serramonacesca (Teramo), nella Valle della Giumentina (Parco Nazionale della Majella), a Venosa (Potenza), a Terranera (Basilicata), a Loretello (Marche), a Capri e nel Gargano.

Per il Paleolitico Medio si ricordano le seguenti località: Grotte del Circeo (Lazio), Biseglie (Puglia), Leuca (Puglia), Saccopastore (Roma), Olmo (Arezzo) e Grotta di San Bernardino (Colli Berici).

Per il Paleolitico Superiore si ricordano le seguenti località: i Balzi Rossi di Ventimiglia, che rappresenta la razza di Grimaldi, di tipo negroide, la caverna delle Arene Candide di Finale Ligure che rappresenta la razza di Cro Magnon, affine alla razza bianca moderna, e la Grotta di S. Teodoro a Messina, che rappresenta il gruppo di San Teodoro, di tipo mediterraneo.

L’UOMO DEL PALEOLITICO

L‘uomo più tipico del Paleolitico rimane comunque la razza di Neanderthal, che venne gradualmente a scomparire secondo l’ipotesi dell’analisi del cromosoma Y o ad integrarsi con le popolazioni Sapiens, secondo l’ipotesi classica. Dunque, scomparsi i Neanderthaliani, sappiamo che vi erano in quel periodo la razza dell’Homo Sapiens, diffusa in Europa, Africa, Asia e Cina.

Aveva migliorato i propri strumenti di vita quotidiana, raccoglieva i frutti selvatici ed i prodotti spontanei del suolo, ma la sua vita era pur sempre legata alla caccia ed alla pesca.

Abitava le cavità naturali, non disdegnava scavare profonde buche nel terreno, coprendole con rami e pelli, ma sapeva costruire anche capanne. Aveva imparato ad affiancare alle originarie armi litiche anche armi ed utensili di ossa e corna di animali, principalmente indirizzati alla pesca: punteruoli, arpioni e lance.

Coltivava l’arte attraverso incisioni rupestri, pitture parietali e realizzazione di “Veneri paleolitiche“. Inoltre, diede importanza ai riti funebri, dimostrando di aver maturato una coscienza superiore legata al problema di un possibile “mondo dell’aldilà”: nel Paleolitico Superiore, conseguente alla scomparsa dell’uomo di Neanderthal (tra 35.000 e 40.000 anni fa), i defunti venivano già sepolti con i loro ornamenti e con le eventuali insegne del comando.

IL MESOLITICO

Comprende il tempo che va da 10.000 ad 8.000 anni prima di Cristo, per cui la sua durata si estende, rispetto a noi, fino a 12.000 anni fa. Essendo il periodo intermedio dell’Età della pietra si usa definirlo anche come “Età della pietra di mezzo” in quanto gli uomini iniziarono ad elaborare sofisticate tecniche di lavorazione della pietra, come la scheggiatura di selci ed il loro fissaggio a manici in legno o in osso col fine di avere utensili validi sia per la caccia che per la raccolta. Oltre a ciò, si assistette anche allo sviluppo di vere e proprie armi atte al lancio e l’impiego generalizzato dell’arco e della freccia.

Poiché andò sempre più migliorando la situazione climatica generale, l’uomo iniziò ad adattarsi ai nuovi ambienti boschivi e lacustri, iniziando la vera crescita demografica e, soprattutto, sociale, attraverso la costruzione, in maniera stabile e continuativa, delle prime capanne e la costituzione dei primi villaggi. Per quel che concerne l’Italia, questo periodo ha avuto manifestazioni ai suddetti Balzi Rossi (Riparo Mochi) e Arene Candide, nonché nel Covolo della Paina (Colli Berici), a Talamone, nella Grotta delle Felci a Capri e nella Grotta La Porta a Positano.

IL NEOLITICO

Il mutamento delle condizioni climatiche generali del nostro pianeta condusse al passaggio naturale dal Mesolitico al Neolitico. Questo passaggio però non avvenne per tutti nella stessa epoca a causa della differenziazione, anche assai marcata, dei lenti cambiamenti climatici, per cui le date citate sono da intendersi come “medie”. Nel periodo compreso fra 12.000 anni fa e 6.000 anni fa i ghiacci iniziarono a ritirarsi e così le steppe e le tundre presero a trasformarsi gradualmente in foreste, per cui cambiò necessariamente anche la fauna che, da subartica si adattò in fretta al nuovo clima temperato.

IL RUOLO DELLA DONNA NEL NEOLITICO

L’uomo continuava l’attività della caccia e della pesca e la donna quella della raccolta dei frutti e dei prodotti spontanei della terra, fra i quali anche i semi delle piante, in modo particolare quelli delle erbe selvatiche che, a tutti gli effetti, erano gli antenati del grano e dell’orzo. Normalmente, si ritiene che circa 4.500 anni fa il Paleolitico si sia concluso su tutto il pianeta.

DALLA CACCIA ALLA SEMINA

In questo periodo si assistette ad una vera e propria rivoluzione delle varie civiltà in quanto le nuove terre, private della minaccia del ghiaccio e del freddo, si presentavano adatte alla semina: fu l’inizio dell’agricoltura. Tra i prodotti più importanti di quei tempi si sa per certo che vi furono: il frumento, il miglio, le fave, i piselli, il lino, il corniolo, la vite e molti alberi da frutto. Successivamente, alcuni prodotti iniziarono ad essere cotti e conservati in recipienti come giare e orci, per salvarli dai piccoli roditori e preservarli dall’umidità; altri prodotti, invece, iniziarono ad essere macinati con grosse mole di pietra e se ne ottennero pani e focacce.

DALLA SEMINA ALL’ALLEVAMENTO

Il passo verso l’allevamento degli animali fu davvero breve in quanto, avendo a disposizione la paglia, il fieno ed altri foraggi conseguenti la semina, adatti per alcuni animali che prima si cacciavano solamente, l’uomo iniziò a costruire recinti, addomesticando così i primi animali e ricavandone tutto il necessario per il proprio sostentamento: carne, latte e lana. Fu un’autentica rivoluzione che porl’uomo da cacciatore ad allevatore e da nomade a stanziale.

DALLA CAVERNA ALLA CAPANNA

L’uomo divenne stanziale, ma non abbandonò subito le grotte e le caverne, che continuò ad occupare nei momenti di caccia. Di certo, comunque, in maniera graduale, iniziò a trascorrere sempre più tempo nella capanna poiché lo richiedevano l’agricoltura e l’allevamento.

Nel costruire i primi villaggi prestava molta attenzione alla presenza dei dossi in prossimità dei corsi d’acqua o dei laghi: la sicurezza personale veniva prima di tutto.

La sua capanna tipica è a forma circolare o ellittica, realizzata con pali spessi e robusti, ben conficcati nel suolo, mentre la buca perimetrale è sempre assai più profondo del piano del focolare. In genere la capanna era assai spesso associata ad altre capanne, formando così il piccolo villaggio di diversi, ma non troppi, nuclei familiari.

NUOVE ARMI E NUOVI STRUMENTI

Col passaggio dall’ascia scheggiata a quella levigata e tagliente su di un lato si ebbe uno dei momenti più tipici dell’avvento del Neolitico. La nuova arma era più leggera e aveva una caratteristica decisamente innovativa: non veniva più solo “impugnata”: ora si immanicava con legamenti di vario tipo (fibre vegetali o tendini di animali), mentre al manico di legno ora si accostava quello di corno di cerveide.

I lavori di semina e raccolto richiedevano precisi strumenti da lavoro e apparvero cosi: la zappa per la preparazione del terreno, la cuspide adatta alla creazione del buco, il punteruolo per realizzare fori, il mazzuolo per piantare pali, quindi la falce ed il falcetto per mietere. Accanto alla nuova ascia si modificò anche il pugnale, ovviamente: dalla selce scheggiata si passò all’osso e al metallo. La punta delle frecce da arco subì la stessa trasformazione del pugnale e vennero definitivamente adottate le alette laterali per la stabilizzazione del volo. Dalle ossa degli animali uccisi si ricavarono: spatole, scalpelli, piccolissimi punteruoli, aghi, pettini e raschiatoi. I pugnali, i coltelli ed i raschiatoi ebbero una successiva evoluzione grazie al commercio marittimo: con l’arrivo dell’ossidiana dalle isole vulcaniche delle Eolie si ebbe una materia vetrosa assai tagliente e resistente.

IL COMMERCIO

Le invenzioni che determinarono lo sviluppo del commercio marittimo furono certamente il remo e la vela. Accanto alla piroga, più adatta agli spostamenti fluviali, l’uomo del neolitico aveva a disposizione la barca con la vela ed i remi, che gli consentì di affrontare, pur sotto costa, il mare aperto e dare l’avvio ad una specie di seconda rivoluzione: tutti avrebbero potuto ricevere di tutto ed aumentare velocemente il loro livello tecnologico ed il livello di vita in generale.

LA CERAMICA

La vita stanziale e di comunità portò in fretta ad un’evoluzione del vasellame domestico tipico: non più solo legno e pietra, ma utilizzo massiccio dell’argilla: nasceva la ceramica. Dapprima modellata in maniera rude, essiccata al sole o cotta accanto al fuoco del focolare, venne ben presto addomesticata da abilissimi vasai e caratterizzata da incisioni e disegni anche policromi.

IL SENSO DEL RELIGIOSO

Dai defunti che venivano lasciati nelle caverne, si passò a seppellirli in campo aperto, all’interno di fosse scavate direttamente nel terreno e, spesso, circondate da pietre. C’era enorme rispetto per la persona defunta e si riteneva possibile la sua sopravvivenza nel regno dell’oltretomba, per cui il momento della morte era seguito ad un vero e proprio rito funebre. Il corpo veniva posto in posizione rannicchiata e attorno ad esso venivano posti il suo “corredo funebre“, costituito da quegli oggetti che erano appartenuti al defunto, appunto.

IL NEOLITICO IN ITALIA

L’uomo del Neolitico viveva praticamente in tutta l’Italia: nella Grotta del Guardiano (Molfetta), a Rumiano di Vayes (Val di Susa), ad Alba, nella Grotta di Aisone (Valle Stura), Grotte del Finalese, Isolino di Varese, Fiorano (Modena), Grotta Lattaia (Siena), Grotta Sepolcrale Patrizi (Roma), Chiozza di Scandiano (Modena), Campegine, Sant’Ilario d’Enza, Sant’Andrea di Travo, Lagozza di Besnate, Bardello, Bodio, Cazzago, Brebbia, Isolino Virginia, Ripoli, Caverna di Ostuni, Madonna di Grottole, Stentinello (Siracusa), Grotta Corruggi e tante, tante altre ancora, praticamente in tutt’Italia.

DAI PRIMATI AGLI OMINIDI

Grazie ai fossili a tutt’oggi rinvenuti, sappiamo che i primati comparvero sul nostro pianeta circa 65 (sessantacinque) milioni di anni fa, ovvero tra la fine dell’Era Secondaria e l’inizio dell’Era Primaria. Questi nostri antichissimi progenitori avevano, appunto, le tipiche caratteristiche di un primate: erano in grado di vivere sugli alberi, possedevano un alto grado di socialità, avevano cinque dita per zampa (mani e piedi) ed il pollice opponibile, la loro dentatura era adatta ad una dieta onnivora e gli occhi erano in posizione frontale, rivolti in avanti, in modo tale da garantire loro una visione binoculare così da poter visualizzare le distanze in maniera tridimensionale.

L’EVOLUZIONE UMANA

Prima di giungere allo stadio attuale, l’evoluzione umana passò attraverso varie tappe (le cifre dei tempi che indicherò sono da intendersi come un “all’incirca”): cinque milioni di anni fa arrivò l’Australopiteco, la cui capacità cranica era compresa fra 400 e 450 centimetri cubici; due milioni e mezzo di anni fa fu la volta dell’Homo Habilis, che poteva disporre di una capacità cranica compresa fra 650 e 700 centimetri cubici; un milione e ottocentomila anni fa si passò all’Homo Erectus, la cui capacità cranica era compresa fra 900 e 1.100 centimetri cubici; fra cinquecentomila e duecentomila anni fa toccò all’Homo Sapiens,il quale era dotato di una capacità cranica compresa fra 1.100 e 1.300 centimetri cubici e, infine, trentamila anni fa vi fu il passaggio definitivo a noi umani, con la figura dell’Homo Sapiens Sapiens, dotato di una capacità cranica compresa fra 1.300 e 1.400 centimetri cubici.

L’UOMO DI NEANDERTHAL

Si tenga comunque presente che, a fronte di tale schema generale di riferimento, tra gli uomini antichissimi più noti vi fu certamente l’uomo di Neanderthal, il quale apparve già attorno a duecentomila anni fa (almeno nella sua caratteristica afferente la Cultura Musteriana) e disponeva di una capacità cranica compresa fra 1.200 e 1.400 centimetri cubici, perciò già assai prossima alla nostra, per cui ciò induce a ritenere che potesse risolvere quasi tutti i problemi legati alla sopravvivenza.

L’ESTINZIONE DEI NEANDERTHALIANI

Si estinsero in maniera assai graduale, circa trentacinquemila anni fa, per cause ancora non del tutto chiarite o sufficientemente dimostrate. Secondo l’ipotesi classica, sappiamo che attorno a quel periodo le variazioni climatiche costrinsero i Neanderthaliani a migrare verso le terre del Sud e Sud-Ovest del pianeta, dove ebbero modo di incontrare loro simili dotati di tecnologie leggermente superiori, per cui potrebbe essere probabile una fusione con altri popoli più che un’estinzione di queste genti.

L’IPOTESI “EL SIDRON

Secondo l’ipotesi più recente, relativa all’analisi del suo cromosoma Y ed effettuata su di un maschio vissuto circa cinquantamila anni fa a El Sidron (Spagna), si è riscontrato che era del tutto diverso da quello dell’uomo moderno: il DNA Neanderthaliano presenterebbe tre geni immunitari, diversi fra loro, uno dei quali produrrebbe antigeni che provocherebbero una risposta immunitaria delle femmine incinte.

In pratica, i feti maschi aventi quel gene verrebbero abortiti. Secondo tale ipotesi, pur entrando i Neanderthaliani in contatto con i Sapiens delle regioni del Sud, Sud-Ovest, non sarebbero più stati in grado di generare maschi sani e ciò avrebbe portato alla loro naturale estinzione.

VITA DEI NEANDERTHALIANI

L’uomo di Neanderthal viveva negli anfratti rocciosi e nelle caverne, ma era anche in grado di costruire agevolmente capanne e focolari. La sua vita dipendeva dalla caccia, che praticava sempre in gruppo. Non era proprio una bellezza da vedere, avendo il corpo peloso, la fronte bassa e sfuggente, le spalle enormi e le gambe arcuate che, però, riusciva agevolmente a distendere. La sua postura era perfettamente eretta. Si dipingeva il corpo con l’ocra, si perforava i denti e, forse, lasciava uno spazio piccolissimo anche per l’arte se si considera come afferente alla cultura Neanderthaliano il flauto d’osso a tre buchi, rinvenuto nel 1996 in Slovenia. Indubbiamente, seguiva “pratiche religiose” legate al rituale funebre, inumava i corpi dei defunti in posizione rannicchiata e accompagnava la cerimonia con offerte di cibo e strumenti.

L’ETÀ DEL RAME

Il più importante risultato dei commerci marittimi e fluviali fu certamente l’introduzione del rame, proveniente dalle regioni settentrionali dell’Asia Minore. Circa ottomila anni fa (6.000 a.C.), data la sua duttilità, l’uomo iniziò a battere e foggiare direttamente a freddo il rame e solo successivamente iniziò a fonderlo.

Ovviamente, i primi popoli che ne trassero un beneficio concreto furono quelli gravitanti nelle regioni attorno al Mar Egeo e all’Anatolia (la moderna Turchia), appunto: innanzitutto la Troade di Troia, collocata nella punta anatolica estrema, poi la Misia, confinante con la Troade, quindi l’isola di Lemno, posta di fronte alla Troade e, infine, la città greca di Mitilene, sull’isola di Lesbo.

IL RAME IN ITALIA

Sempre grazie al commercio marittimo, il rame giunse in Italia attraverso lo Stretto di Messina ed il Canale di Sicilia, apportando un significativo impulso allo sviluppo tecnologico. Esso servì a produrre, entro apposite forme di fusione, le asce in metallo a lama liscia ed i pugnali a lama corta e triangolare, sia con che senza costolatura mediana di rinforzo. Tuttavia, tale metallo non si impose del tutto sulla lavorazione della selce lavorata e rifinita con maestria nel taglio. Il rame si impose però nella punta delle frecce: la sua duttilità, infatti, permise la creazione di punte con le alette peduncolate, così da aumentare il danno inflitto alle carni degli animali e dei nemici.

LA DONNA NELLA PRIMA ETÀ DEL RAME

Dopo l’abilità della raccolta delle erbe selvatiche, del trattamento delle piante officinali, della semina e dell’allevamento degli animali, la donna fu il simbolo di una nuova conquista durante l’età del rame: la lavorazione delle fibre naturali della lana e del lino, sottoponendole a moto torcente rotatorio così da ottenere lunghi filamenti, dapprima utilizzati per semplici cuciture di indumenti, poi impiegati per realizzare veri e propri tessuti grezzi.

TRA VILLAGGI E PALAFITTE

All’inizio, non cambiò praticamente nulla rispetto all’ultimo periodo del Neolitico: si continuò a vivere secondo le possibilità offerte dall’ambiente locale, tra caverne, anfratti, grotte e capanne. Tuttavia, come abbiamo visto, le capanne venivano costruite assai vicine fra di loro, costituendo ben presto il villaggio vero e proprio che, per propria necessità, iniziò ad essere difeso o da profonde trincee (Serra d’Alto) o da grandi recinti di pietre (Branco Grande di Camarina) e, probabilmente, da grezze palizzate.

IL SENSO RELIGIOSO

Continuò a persistere il sistema dell’inumazione dei defunti, col corpo sempre deposto in posizione rannicchiata all’interno o di una buca (Remedello Sotto, nel Bresciano e a Ripoli, nel Terramano) o di un recinto di lastre di pietra. Tuttavia, sono state rinvenute a pozzo, tombe all’interno di grotte naturali (Pitigliano di Grosseto e Sgurgola nel Lazio) e tombe a corridoio. Rimane comunque certo il fatto che l’architettura funeraria del periodo ebbe come un risveglio poiché, dov’era possibile, furono scavate tombe a forno, a pianta circolare o ellittica, a volta bassa e ad una o più celle, direttamente nella pietra tenera.

L’ETÀ DEL BRONZO

Dal 3.500 al 1.200 a.C. si sviluppò la seconda età dei metalli, detta Età del bronzo, allorquando si imparò ad unire il rame allo stagno, ottenendo così una nuova lega metallica che, con nove parti di rame ed una di stagno, diventava più dura e resistente. Grazie al commercio marittimo, esso giungeva dalla lontana Cornovaglia.

LE ARMI DEL BRONZO

Le nuove asce, realizzate attraverso un processo di fusione in apposite matrici, divennero assai più potenti, pericolose e sicure in quanto vi furono aggiunte le alette ed il codolo d’innesto al manico. Il pugnale, pur rimanendo di forma triangolare, poté essere realizzato assai più sottile di quello in bronzo, quindi più leggero e facile da adoperare. La spada divenne più resistente, più leggera, più lunga e quindi più micidiale nel combattimento ravvicinato. Le punte delle frecce ebbero un aumento nella potenza di penetrazione, grazie anche ad una cuspide assai più acuminata e resistente.

Verso la fine di tale periodo, e per buona parte dell’Età del Ferro, il bronzo continuò ad essere battuto, ottenendo così lamine di diverso spessore, ma si aggiunse anche un procedimento decisamente particolare, successivo alla fusione, e detto “laminatura“, consistente in un processo teso a donare al metallo quella particolare doratura che lo contraddistingue.

I MONILI DEL BRONZO

Anche l’industria dei monili ebbe un incremento notevole con la nuova lega: agli oggetti ornamentali in conchiglia e in osso subentrarono: il pendaglio, la spilla, lo spillone, il bracciale, la fibula ad “arco di violino” e il “rasoio delle terramare” a classica forma lunata.

LA CIVILTÀ LACUSTRE E DELLE TERRAMARE

Durante l’Età del Bronzo, nell’Italia padana si svilupparono la civiltà lacustre, con la sua vita tipica sulle palafitte, costruite direttamente sulle rive dei fiumi o dei laghi, e la civiltà terramaricola o delle “Terramare“, pure caratterizzate dalle palafitte costruite però sui terreni vallivi del Po che erano soggetti con una certa frequenza ad esondazioni e inondazioni, conseguenti a deflussi arginali o a rotture vere e proprie degli argini.

LA PALAFITTA

La palafitta veniva costruita su di un’impalcatura lignea ed unita alle altre da un lungo tavolato in legno, mentre l’intero abitato terramaricolo assumeva una forma più o meno rettangolare. Dove il terreno circostante lo consentiva, il villaggio veniva difeso da un largo e profondo fossato, valicabile dai residenti attraverso un semplice ponticello ligneo, difeso da un semplice ma efficace terrapieno difensivo detto “aggere”, che teneva inoltre a debita distanza le eventuali acque circostanti.

LA CAPANNA

La costruzione tipica delle Terramare furono le capanne di forma rettangolare (Terramara di Castellazza di Fontanellato, nei pressi di Parma) sostenute da pali conficcati nel terreno molle e purtroppo soggette assai spesso, anche per calcoli sbagliati, ad alcuni inconvenienti che ne determinavano frequentemente la loro distruzione dovuta sia a trasformazioni, sovrapposizioni ed ampliamenti che a frequentissimi incendi. Disposte a percorsi geometrici, formavano delle vere e proprie insulae abitative nelle quali era anche prevista un’apposita area vuota, o comunque tenuta libera, forse dedicata alle riunioni della gente del villaggio.

LA VITA RELIGIOSA

La vita religiosa della civiltà terramaricola, priva dello spazio necessario, fu necessariamente diversa dalle precedenti civiltà. Su apposite palafitte vi era anche la “Città dei morti“, deputata ad accogliere, in rozzi contenitori, le ceneri dei defunti che venivano bruciati in veri e propri inceneritori e deposti lì, uno accanto all’altro, praticamente quasi del tutto privi degli oggetti appartenuti loro in vita, similmente a quanto accade oggi per il rito della cremazione e le conseguenti ceneri del defunto raccolte in un’apposita urna.

LE ARMI

La civiltà terramaricola godette dell’introduzione dei benefici del bronzo, ma le sue spade differirono dalle altre per il codolo (parte terminale della lama) piatto, nonché per l’impugnatura in legno o in cuoio, e le sue lance avevano l’immanicatura “a cannone”, quindi la punta era infilata in un lungo bastone.

L’ETÀ DEL FERRO

Abbraccia un periodo diverso da zona a zona del pianeta e, in linea di massima, comprende comunque il periodo storico che va dalla fine del 2° millenio a tutto il 1° millenio prima di Cristo.

Alla sua prima apparizione, questo metallo non ce la fece subito ad imporsi sul bronzo, poiché richiedeva una temperatura di fusione assai più alta ed era meno duttili alla lavorazione; risultava poi più debole del bronzo, ma era meno “costoso” e più facile da affilare, per cui iniziò ad essere adoperato comunque, anche perché il rame e lo stagno divennero sempre meno reperibili rispetto ad esso. Per contro, il ferro poteva essere affilato tramite molatura, mentre il bronzo doveva essere riforgiato.

L’ACCIAIO

Col tempo, si scoprì che aggiungendo al ferro una piccolissima percentuale di carbonio, non superiore al 2% del peso complessivo, si otteneva una nuova lega, assai più robusta del bronzo: l’acciaio. Ad ogni modo la lavorazione del bronzo continuò ancora per parecchio tempo, venendo particolarmente impiegato, sotto forma di lamina, nella preparazione di: scudi, elmi, schinieri, cinturoni, e lastre metalliche difensive per i cavalli, i cocchi ed i carri da guerra. Venne addirittura impiegato sia per realizzare vasi e coppe, nei bisogni del focolare e della mensa, che per costruire braccialetti, pendagli, collane e fibule utili ad ornare le persone.

LA CULTURA DELL’ETÀ DEL FERRO

La civiltà del ferro assunse forme culturali varie e diverse fra le regioni italiche. Nella zona della necropoli ad incinerazione di Golasecca (Varese) si sviluppò la Cultura di Golosecca, detta anche Cultura del Ticino, diffondendosi poi tra Piemonte, Liguria e Lombardia.

La Cultura Paleoveneta era caratterizzata da ceramiche con urne ovoidali e biconiche, da oggettistica in ferro, dalle tombe a carro, dal tornio a ruota, dai corredi da toilette in oro e argento e si diffuse intorno ad Este per poi espandersi nella pianura veneta; si distinse per gli impasti nero-lucidi con incisioni geometriche e per le ceramiche grigie derivate dall’influenza gallica ed ebbe contatti sia con gli Etruschi che con i primi Romani.

Nella zona emiliano-romagnola, si presentò la Cultura Villanoviana, con le sue tombe ad incinerazione e le ceramiche primitive, ma anche vasi a figure greche, oggetti metallici ed ornamenti in bronzo. Nella zona etrusca, questa cultura si distinse per le tombe a pozzetto e l’urna a capanna.

Lungo la costa adriatica si sviluppò la Cultura Picena, piena di influssi greci ed etruschi, che si caratterizzò per una particolare impronta nella lavorazione dei metalli rivolti alla creazione di armi. Verso il Sud della penisola si sviluppò la Cultura Meridionale, decisamente influenzata dalla cultura greca.

Una differenza sostanziale fra queste culture e che mentre le prime tre abbandonarono la pratica del seppellimento dei defunti ed adottarono quella della cremazione, nelle rimanenti rimase il rito dell’inumazione nella nuda terra.

I CLASSICI LATINI

Di questa Italia così vicina a noi rispetto alle Ere ma, al tempo stesso, tanto lontana da noi rispetto al tempo ordinario concesso ad ogni singolo individuo, molte cose le abbiamo apprese dai classici latini. Ad esempio, nel De Rerum Natura (V, 1283-7) Lucrezio scrive ciò che essi già sapevano con certezza del loro passato. “… Arma antiqua manuns ungues dentesque fuerunt, et lapides et item silvarum fragmina rami … Posterios ferri vis est aerisque reperta. Et prior aeris erat quam ferri cognitus usus …”.

Passando poi alla “Vita di Augusto“, scritta da Svetonio (Aug. 76) sappiamo che “… gigantum ossa et arma heorum …” erano nella piena disponibilità dell’imperatore.

IL NEOLITICO DALLE NOSTRE PARTI

Tra 12.000 anni fa e 6.000 anni prima di Cristo i ghiacci iniziarono a ritirarsi, mentre le steppe e le tundre iniziarono una lenta ed inarrestabile trasformazione in foreste, per cui venne necessariamente a mutare anche la fauna preesistente che, da subartica qual era si adattò in fretta al nuovo clima temperato. Ed è solo da questo periodo che possiamo parlare, con una certa cognizione di causa, di una “Preistoria ferrarese“, ovviamente legata a ciò che è stato scoperto, nel corso degli anni e dei secoli, nel nostro sottosuolo.

RESTI DI UN MAMMUT E DI UN MEGACERO

Nel 1977 a Settepolesini, frazione del Comune di Bondeno, presso la cava di sabbia in località Ca’ Zarda“, durante i lavori di estrazione di sabbia dal paleoalveo (antico tratto di alveo di un corso d’acqua, non più collegato al fiume che lo generò, a causa di fenomeni naturali o artificiali. Il tratto può essere ancora riconoscibile da terra come canale non collegato o semplice depressione del terreno, o grazie all’aerofotogrammetria che lo identifica con un diverso colore del terreno circostante) del Po, eseguiti dalla ditta SEI (Società Escavazione Inerti), ad una profondità di circa 20 metri, un grande osso di un emibacino sinistro di mammut (Mammuthus Primigenius o lanoso) si incastrò nella bocca aspirante della draga.

Al giorno d’oggi sappiamo con certezza che quell’antica specie di mammut era leggermente più piccola degli attuali elefanti africani: aveva un’altezza non superiore ai tre metri e mezzo, una lunghezza non superiore ai 4,5 metri e un peso mai superiore a 6,5 tonnellate; era caratterizzata da lunghe zanne ricurve verso l’alto e all’indietro, da un lunghissimo vello su tutto il corpo, da orecchie e coda leggermente minori rispetto a quelle degli attuali elefanti e visse tra 200.000 (duecentomila) e 5.000 (cinquemila) anni fa.

Sempre nello stesso periodo, nella stessa zona e con la medesima modalità, rimasero incastrate nella bocca della braga aspirante anche due crani di megacero o cervo gigante o cervo dalle corna giganti (Megaloceros Giganteus), famoso per l’altezza di circa due metri e per l’ampiezza incredibile delle corna, che poteva tranquillamente raggiungere i 3,5 metri.

Sappiamo che questi mammiferi vissero in epoche remotissime (Pleistocene), ma i ritrovamenti più antichi sono databili a circa 400.000 anni fa, mentre quelli più recenti sono databili a 9.200 anni fa circa.

L’interpretazione che è stata data ai ritrovamenti di queste ossa e che condivido pienamente, è che le carcasse di questi animali siano state dapprima trasportate qui in seguito ad una fase alluvionale, poi si siano “ancorate casualmente” nei pressi delle rive dei bacini e, dopo essersi definitivamente decomposte, siano state scaricate lentamente sul fondo dall’incessante moto delle acque.

IL VILLAGGIO TERRAMARICOLO PRESSO LA FORNACE GRANDI

All’inizio degli anni ’50 dello scorso secolo, vennero effettuati scavi per recuperare argilla all’interno della cava che si trovava attigua alla “Fornace Grandi” di Bondeno, nei pressi dell’attuale area occupata dalla Coop, dove venivano fabbricati mattoni, l’operaio Nino Sperandio, addetto alla macchina laminatrice dell’argilla, aveva individuato qualcosa di strano a circa sette metri di profondità rispetto al piano della campagna circostante: era la prova di un “Neolitico recente ferrarese”, chiaramente attribuibile ad almeno tremila anni prima di Cristo.

LA PRIMA INDAGINE

La prima indagine consentì di identificare i fondi di ben venti capanne, dalla forma a cono e con un diametro medio di circa un metro e mezzo: un vero e proprio villaggio terramaricolo.

In seguito alle indagini condotte in prima persona dal Sovrintendente Giorgio Monaco e da Renato Scarani, noto ricercatore bolognese, fu chiarito che il sito era di sicura Età del Bronzo.

Così, ad aprile 1956, l’ispettore onorario Raffaele Benea diede l’ufficialità della scoperta. A settembre si fecero nuovi scavi esplorativi, direttamente da don Guerrino Ferraresi, che portarono al ritrovamento di numerosi frammenti di ceramica, di selce e di una macina, che egli attribuì al periodo neolitico.

All’interno delle capanne fu ritrovato tutto il seguente materiale: ben sette macine da cereali (cinque integre ed due spezzata), due accette di pietra verde, due raschiatoi in selce, scodelline in ceramica, un’olla biconica, una tazza, pesi vari, lame varie in ossidiana, conchiglie, carboni, frammenti ceramici, ossa di animali diversi e, infine, un intero focolare di capanna spesso circa un metro e mezzo.

IL VILLAGGIO TERRAMARICOLO DI PILASTRI

Nel 1979 il sig. Gianfranco Po, appassionato di storia antica locale, identificò nella località denominata “I Verri“, all’interno di un’area di circa centoquaranta metri per ottanta, a Pilastri, alcuni manufatti assai antichi: si trattava di frammenti ceramici, pezzetti di corno, ossa di vario tipo e manufatti in bronzo.

La successiva indagine condusse a rintracciare i resti di un villaggio terramaricolo, riferibile al periodo dell’Età del bronzo Medio e Recente (1.600-1200 prima di Cristo circa). Nel 1989 vi furono nuovi rilievi nel sito che condussero al ritrovamento dei medesimi manufatti precedentemente identificati.

IL VILLAGGIO DI SANTA MADDALENA DEI MOSTI

LA SCOPERTA DELLE SEPOLTURE
LA SCOPERTA DELLA COLTRE ALLUVIONALE